Il flamenco sulla neve
testo
di Rino Mele
Questa sua nuova mostra è un segno di straordinaria maturità, i pochi oggetti che segnano le due stanze della Galleria si fingono indicatori di un percorso ma, nella neutrale e assoluta autoreferenzialità, cancellano il sistema di rapporti cui pur alludono. Ogni quadro di Franco Longo chiede tutto lo spazio per sé, piccola -imprecisa- enciclopedia che unisce la linea dell’inferno e quella della salvezza. Come leggere questi quadri che tendono alla soppressione dell’immagine, esaltandola fino alla contaminazione con graffi materici, schegge, dolorose ferite? Bisogna partire dallo sfondo, è esso lo schermo da cui ha origine l’immagine e nella quale chiede di finire sciogliendosi, addormentandosi nello scomporre i propri elementi e scandirne il suono. Longo è attratto dal surrealismo, il liquido misterioso che circonda la figura ed evocandola ne nasconde il volto, quel vibrare violento, l’inconsistente terrore, un perturbante addolcito nel suo contrario e si nasconde nella pace delle forme. Il surrealismo è il reale che sprofonda, e morde, avvicinando maschere come se non gli appartenessero e quelle maschere chiama con nomi che ubbidiscono a spostamenti inattesi e salvifici. Il surrealismo spinge sulla pietrosa riva dell’arte nuove e inattese nominazioni delle cose, le scambia nel limite di un gioco e, allontanando i nomi dalla pretesa di essere oltre la loro voce, precipita gli oggetti in una vertigine religiosa e visionaria. Il pittore surrealista è un rabdomante e un indovino. Ha davanti a sé un divino alfabetiere, scambia la “R” di rondine con la “B” di bandiera e inventa il linguaggio profondo che ogni bambino prima di nascere già preme nelle lune della madre e nel sangue, quel linguaggio della metafora permette allo scolaro di scrivere che le bandiere garriscono, e al poeta che la rondine s’apre al vento.
Le rose, il sangue verde delle foglie, l’acqua degli steli, le spine.
Dipingere è cercare le dita della madre e succhiarle,
avidi, bagnarsi di latte le labbra, sporcarsi
gli occhi, guardare
e non vedere, sentire la bianca cecità
del nascere, dipingere è accecare la visione, tornare
leggeri verso la morte
vestita come la ragazza sognata quando l’alba
smuove ferocemente il sonno e ubriaca.
Dipingere è togliersi la pelle, graffiarsi, strapparsi
dalle ossa, vestire con maschere l’ombra, udire
le parole che il muro dipinto
non trattiene, e urla
piano. Dipingere è nascondere le immagini,
chiedere ad esse di tornare,
quando a sera tutto si confonde e pare che niente
possa accadere. Così la tenda più pesante
grava la mano che la tira. Dipingere è l’atto finale
di un sapiente guardare. Come un profeta
chiude gli occhi nel parlare -la visione lo acceca- così
un pittore
quando soave la corda nella sua polvere
lo trascina parla, senza parole, scrive mute figure,
la danza, il dolore che s’alza
tra i corpi costretti su un legno nero fermi,
a rappresentare l’astrazione del suono, il verbum
fatto carne
e colore. Dove finisce la forza
che su una superficie spinge il colore, tela
e legno? E la stessa mano che dipinge, nel quadro
dove si nasconde? Cosa resta
di quella mano, quale traccia, ragionevole ombra, lieve
segnale, il vibrare delle dita
in quale luogo del quadro resiste? La pittura
è l’azione di un corpo che nessuno
registra ma dal luogo dipinto c’è come un riverbero fatuo, qualcosa che ricostruisce
il gesto della mano, lo sguardo, il crudo
affanno della voce. Dove si posa più quel tremore, l’anima del niente
che si forma e dice la figura? I cavalli alti,
rosa e nero, le lance dei soldati
chiusi nelle verdi armature, la ruggine, il volto
coperto da panni
di lino a proteggere il vento e, lontano, oltre il monte, l’uomo crocifisso che il dipinto non contiene
e mostra un temerario cammino, un velo e nel velo
l’acqua
del tormento, la paura, il tremendo
colpo di lancia che il soldato
preme nel sussulto del corpo ora finalmente morto.
- Number seventeen 2
- number twenty-two
- CERAMICA K1
- Piatto XX
- Archaeopteryx, xx
Ogni volta che Valerio Falcone promuove un nuovo evento, si percepisce la dignità del progetto culturale di respiro, innovativo ed attraente, articolato e diffuso sul territorio.
Quest’anno, per 45 ceramiche da 45 cm, il protagonista è Franco Longo, artista dalla spiccata sensibilità, segnato dai successi di un lusinghiero percorso creativo. L’ho conosciuto quando ero adolescente: la leggera differenza di età tra noi suscitava in me curiosità ed interesse, ammirazione per la “libertà” che ne caratterizzava la presenza nella realtà locale.
Penso all’inizio della sua esperienza artistica negli anni in cui Salerno viveva un periodo fecondo sotto il profilo della vivacità e della ricchezza dell’offerta culturale. L’azione pubblica cominciava a manifestarsi con una certa nettezza e sarebbe piú tardi culminata in iniziative di altissimo profilo: valga per tutti l’esempio della Rassegna Teatro Nuove Tendenze. L’Università, espandendosi, cominciava ad innervarsi nel territorio. I Privati -talvolta ottenendo attenzione dal Pubblico e realizzando intese e sinergie- animavano incisivamente la realtà cittadina del capoluogo e dei maggiori centri della provincia.
Gallerie d’arte come L’Incontro, Il Catalogo, La Seggiola, Taide, Einaudi 691, davano vita a programmazioni culturali di livello nell’ intero arco dell’anno.
Franco Longo si inserisce da protagonista in quel contesto nella seconda metà degli anni ’60 e subito si distingue per la eccezionale versatilità, per la capacità di esprimersi attraverso linguaggi diversi, spaziando dalla pittura alla musica, dal cinema al teatro, all’impiego ante litteram degli strumenti piú avanzati della comunicazione e dell’audiovisivo.
Anche -ma non soltanto- in ragione di questa peculiarità, il suo lavoro fu subito valorizzato da critici, intellettuali ed accademici di grande levatura, quali Filiberto Menna, Enrico Crispolti, Antonio D’Avossa, Rino Mele.
Con il tratto di Franco Longo, Fornace Falcone aggiunge una nuova tessera al mosaico degli incontri con i territori della creatività.
Si rinnova così il rapporto ormai collaudato tra le espressioni piú autorevoli delle arti figurative e il contenitore che, accogliendone le opere, si qualifica oltre che per il design contemporaneo dell’arredamento, anche per essere divenuto riferimento di significativi eventi culturali.
Fornace Falcone, dentro e fuori le proprie mura, con la sua esperienza di circa un secolo, ed oggi con un’ampia ed originale programmazione artistica , dimostra come la cultura rappresenti uno strumento di crescita e di benessere.
Alfonso Andria